16 dicembre 2016

16 Dicembre 2016... sedicesimo giorno di Avvento!



Maybe Someday... Forse un giorno. 
Solo a ripetere il titolo emetto mille sospiri di gioia, di amore. Le emozioni che mi ha regalato questa storia... sono le più belle dell'intero anno. Ho amato tanti altri personaggi, ma con Ridge e Sidney è stato un di più. Loro mi sono entrati dentro, hanno tracciato una linea netta con il mio cuore, con le mie emozioni. Il loro è uno di quei amori che non ti stancheresti mai di leggere. Sono stati ossigeno puro. Mi hanno fatto credere che gli ostacoli che troviamo sul nostro cammino, possono essere aggirati. Possiamo raggiungere e ottenere ciò che volgiamo. La Hoover è una garanzia, l'ho già detto. Non so se riuscirò a trovare un libro che sostituisca "Forse un giorno", ma per il momento mi va bene così. ❤




Mi dovete scusare, ma non ho le recensione! Non riesco ancora a credere di non averla fatta per uno dei libri che ho amato di più. Mi farò perdonare ☹


Prologo
Sydney
Ho appena dato un pugno in faccia a una ragazza. Non a una ragazza qualsiasi. Alla mia migliore amica. La mia compagna di appartamento.
Be’, da cinque minuti credo di poterla chiamare la mia ex compagna di appartamento. Il suo naso ha iniziato a sanguinare quasi all’istante, e per un secondo mi è dispiaciuto per lei, mi è dispiaciuto di averla colpita. Poi mi sono ricordata che razza di bugiarda traditrice sia, e mi è venuta voglia di farlo di nuovo. E avrei potuto, se Hunter non me l’avesse impedito, frapponendosi tra noi.
E così, invece, ho colpito lui. A lui non ho fatto male, purtroppo. Non quanto se n’è fatta la mia mano.
Dare un pugno a qualcuno fa molto più male di quanto immaginassi. Non che abbia mai passato tutto questo tempo a immaginare quanto possa far male prendere a pugni qualcuno. Anche se sento di nuovo il bisogno di farlo, mentre fisso sul telefonino il messaggio di Ridge che è appena arrivato. Lui è un altro di quelli con cui non vorrei più avere a che fare. So che tecnicamente non è responsabile di questa situazione, ma avrebbe potuto mettermi in guardia un po’ prima. Per cui prenderei volentieri a pugni anche lui.
RIDGE: Stai bene? Vuoi salire finché non smette di piovere?
Ovvio che non voglio. La mano mi fa già abbastanza male così. Se salissi da Ridge, vedrei le stelle per il dolore dopo aver finito con lui.
Mi volto e alzo lo sguardo verso il suo balcone. Ridge è appoggiato alla porta-finestra scorrevole, con il telefono in mano, mi sta guardando. È quasi buio, ma le luci del cortile gli illuminano il viso. I suoi occhi scuri incrociano i miei, e il modo in cui curva la bocca in un sorriso dolce e desolato rende difficile ricordare perché ce l’abbia con lui. Si passa la mano libera tra i capelli arruffati che gli sfiorano la fronte, rivelando ancora di più la preoccupazione sul suo volto. O forse è senso di colpa. Come dovrebbe essere.
Decido di non rispondere e gli mostro il dito medio. Lui scuote la testa e scrolla le spalle, come a dire ‘Io c’ho provato’; poi torna dentro e chiude la porta-finestra.
Infilo il telefonino in tasca prima che si bagni e mi guardo intorno nel cortile del complesso di appartamenti dove ho vissuto per ben due mesi. Quando ci siamo trasferite, la calda estate texana stava inghiottendo gli ultimi sprazzi di primavera, eppure questo cortile in qualche modo sembrava ancora pieno di vita. Ortensie blu e viola costeggiavano i vialetti che conducono alle scale e alla fontana al centro.
Ora che l’estate ha raggiunto il suo culmine più sgradevole, l’acqua della fontana è evaporata. Le ortensie non sono che un triste, appassito ricordo dell’eccitazione che ho provato quando io e Tori c’eravamo appena trasferite. Guardare il cortile com’è adesso, sconfitto dalle stagioni, è un inquietante parallelo con come mi sento in questo momento. Sconfitta e triste.
Sono seduta sul bordo della fontana di cemento ormai vuota, i gomiti poggiati sulle due valigie che contengono gran parte dei miei averi, in attesa di un taxi che mi sta venendo a prendere. Non ho idea di dove mi porterà, ma so che preferirei trovarmi in qualsiasi altro posto pur di non stare qui. Qui, dove non ho più una casa.
Potrei chiamare i miei genitori, ma fornirei loro le munizioni per iniziare a sparare tutta una serie di ‘Te l’avevamo detto’.
‘Te l’avevamo detto di non trasferirti così lontano, Sydney.’
‘Te l’avevamo detto di non fare troppo sul serio con quel ragazzo.’
‘Te l’avevamo detto che se avessi scelto giurisprudenza invece di educazione musicale avremmo pagato noi.’
‘Te l’avevamo detto che i pugni si danno con il pollice all’esterno.’
Okay, magari non mi hanno davvero insegnato la tecnica per dare pugni, ma se fossero stati sempre nel giusto in ogni situazione, avrebbero dovutofarlo.
Stringo il pugno, poi distendo le dita, quindi le serro di nuovo. È incredibile quanto mi faccia male la mano, so che dovrei metterci del ghiaccio. Poveri maschi. Dare pugni è uno schifo.
Sapete cos’altro fa schifo? La pioggia. Trova sempre i momenti meno appropriati per cadere, come adesso che non ho un tetto sulla testa.
Il taxi finalmente arriva, e io mi alzo e prendo le valigie. Le trascino mentre l’autista scende e apre il portabagagli. Non gli ho ancora porto la prima valigia, che sento una stretta allo stomaco, quando mi rendo conto di non avere con me la borsa.
Maledizione.
Mi guardo intorno, osservo il punto in cui ero seduta con le valigie, poi mi tasto le spalle, come se la borsa potesse comparire per magia. Ma so esattamente dov’è. Me la sono sfilata e l’ho fatta cadere a terra un attimo prima di prendere a pugni il costosissimo naso alla Cameron Diaz di Tori.
Sospiro. E scoppio a ridere. Ovvio che l’ho lasciata lì. Il mio primo giorno da senzatetto sarebbe stato fin troppo facile se l’avessi avuta con me.
«Mi dispiace,» dico al tassista, che sta caricando la seconda valigia «ho cambiato idea. Non ho bisogno di un taxi.»
So che c’è un hotel a meno di un chilometro da qui. Se riuscissi a trovare il coraggio per tornare dentro e recuperare la borsa, potrei camminare fin lì e prendere una camera in attesa di capire cosa fare. Non credo di potermi bagnare più di così.
Il tassista scarica le valigie e le posa sul marciapiede davanti a me senza nemmeno incrociare il mio sguardo. Sale sul taxi e se ne va, senza dire una parola, come se fosse sollevato per il mio ripensamento.
Devo avere un’aria davvero patetica.
Prendo le valigie e torno sui miei passi. Sollevo lo sguardo verso il mio appartamento e mi chiedo cosa succederebbe se tornassi dentro per prendere il portafogli. Ho lasciato un bel casino quando me ne sono andata. Immagino sia meglio non avere una casa e starsene sotto la pioggia, che tornare lassù.
Mi siedo su una valigia e rifletto sulla situazione. Potrei pagare qualcuno per salire in casa al mio posto. Ma chi? Non c’è nessuno in giro, e poi chi mi assicura che Hunter o Tori gli darebbero la mia borsa?
Che schifo di situazione. So che finirò per chiamare una delle mie amiche, ma adesso sono troppo imbarazzata per raccontare a qualcuno quanto sia stata stupida negli ultimi due anni. Questa storia mi ha colto alla sprovvista.
Già odio avere ventidue anni, e mancano ancora 364 giorni ai ventitré.
È una situazione così orribile che sto... piangendo?
Perfetto. Adesso mi metto anche a piangere. Sono una senzatetto al verde, in lacrime e violenta. E per quanto non mi piaccia ammetterlo, credo di avere anche il cuore spezzato.
«Sta piovendo. Andiamo.»
Alzo lo sguardo e vedo una ragazza sopra di me. Ha un ombrello in mano e mi sta fissando agitata, saltellando da un piede all’altro in attesa che io faccia qualcosa. «Mi sto bagnando tutta. Sbrigati
Il suo tono è un tantino esigente, come se mi stesse facendo un favore e io mi stessi dimostrando ingrata. Mentre continuo a guardarla, mi riparo gli occhi dalla pioggia con una mano e alzo un sopracciglio. Non capisco perché si lamenti: non può bagnarsi visto che non indossa praticamente niente. Guardo la sua maglietta, alla quale manca tutta la metà inferiore, e mi rendo conto che si tratta della divisa di Hooters.
Potrebbe andare peggio di così? Sono seduta su quasi tutto ciò che possiedo, sotto una pioggia torrenziale, comandata a bacchetta da un’odiosa cameriera di Hooters, il sexy fast-food.
Sto ancora fissando la sua maglietta quando mi prende la mano e mi tira su sbuffando. «Ridge aveva detto che avresti reagito così. Devo andare al lavoro. Seguimi, e ti faccio vedere dov’è l’appartamento.» Afferra una delle due valigie, tira fuori la maniglia e me la mette in mano. Poi prende l’altra e attraversa velocemente il cortile. La seguo, se non altro perché ha con sé una delle mie valigie, e la rivoglio.
Mentre sale le scale grida qualcosa nella mia direzione. «Non so quanto hai intenzione di restare, ma io ho un’unica regola: Sta’ alla larga dalla mia stanza.»
Si ferma davanti alla porta di un appartamento e la apre, senza mai guardare indietro per controllare se la sto seguendo. Quando arrivo in cima alle scale, mi fermo di fronte alla porta e abbasso lo sguardo sulla felce che se ne sta indisturbata dal caldo fuori dall’appartamento. Le sue foglie sono verdi e rigogliose come se stessero mandando al diavolo l’estate con il loro rifiuto di soccombere al caldo torrido. Le sorrido, per certi versi orgogliosa di lei. Poi aggrotto la fronte quando mi rendo conto di essere invidiosa di una pianta.
Scuoto la testa, distolgo lo sguardo e muovo un passo esitante verso l’appartamento sconosciuto. È simile al mio, solo che qui le camere matrimoniali sono state divise per ricavare quattro stanze da letto più piccole. L’appartamento mio e di Tori aveva solo due camere, ma la zona giorno è di dimensioni simili.
L’unica differenza evidente è che qui non vedo nessuna bugiarda doppiogiochista con il naso insanguinato. Né i piatti e la biancheria sporca che Tori lasciava un po’ ovunque.
La ragazza poggia le mie valigie di fianco alla porta, poi si fa da parte e aspetta che io... be’, non so cosa sta aspettando che faccia.
Alza gli occhi al cielo, mi prende per un braccio e mi tira dentro. «Che problema hai? Sai parlare?» Inizia a chiudere la porta, poi si blocca di colpo e si volta con gli occhi sbarrati. «Aspetta,» dice sollevando un dito in aria «non sarai...?» Alza gli occhi al cielo e si dà uno schiaffo in fronte. «Oh, mio dio, sei sorda.»
Eh? Ma che sta dicendo? Scuoto la testa e faccio per risponderle, ma lei mi interrompe.
«Dio, Bridgette» borbotta tra sé. Si passa le mani in faccia con un gemito, ignorando completamente il fatto che sto scuotendo la testa. «Sei veramente insensibile, certe volte.»
Wow, questa ragazza ha dei seri problemi in quanto a relazioni interpersonali. Sembra odiosa, anche se si sta sforzando di non esserlo... adesso che crede che io sia sorda. Non so nemmeno cosa rispondere. Poi scuote la testa come se fosse delusa di sé stessa e mi guarda dritto in faccia.
«Io... devo... andare... al... lavoro... adesso!» grida a pieni polmoni e scandendo ogni parola in modo fastidioso. Faccio una smorfia e un passo indietro, il che dovrebbe essere un indizio evidente del fatto che sento benissimo le sue grida, ma lei non ci fa caso e indica una porta in fondo al corridoio. «Ridge... è... nella... sua... stanza!»
Prima che io abbia la possibilità di dirle di smetterla di starnazzare, esce di casa e si chiude la porta alle spalle.
Adesso non so cosa pensare. Né cosa fare. Mi trovo in un appartamento sconosciuto, tutta bagnata, e la sola persona che vorrei prendere a pugni, a parte Hunter e Tori, è a qualche metro da me nella sua stanza. E, a proposito di Ridge, perché cavolo ha mandato da me la sua amichetta? Tiro fuori il cellulare e inizio a scrivergli un messaggio, quando la porta della sua camera si apre.
Esce in corridoio con le braccia cariche di coperte e un cuscino. Non appena incrocia il mio sguardo, resto senza fiato. Spero che non lo noti. È solo che non l’ho mai visto così da vicino prima d’ora, ed è perfino più attraente di come sembrasse dall’altra parte del cortile.
Non credo di aver mai visto degli occhi che sanno parlare. Non sono nemmeno sicura di cosa intendo con questo. È come se sentissi che basterebbe il più piccolo sguardo di quei suoi occhi scuri per sapere esattamente cosa vorrebbe che io facessi. Sono penetranti, intensi e... Oh, mio dio, lo sto fissando.
Solleva l’angolo della bocca in un sorriso d’intesa, poi mi supera e si dirige verso il divano.
Nonostante il suo bel viso e quell’aria vagamente innocente, vorrei urlargli quanto è stato disonesto. Non avrebbe dovuto aspettare più di due settimane per dirmelo. Avrei avuto il tempo di mettere a punto un piano. Non capisco come possiamo aver parlato per due settimane senza che sentisse il bisogno di dirmi che il mio ragazzo se la faceva con la mia migliore amica.
Ridge getta le coperte e il cuscino sul divano.
«Non resterò qui» dico, cercando di impedirgli di perdere tempo con la sua ospitalità. So che è dispiaciuto per me, ma lo conosco appena e mi sentirei più a mio agio in una stanza d’albergo, piuttosto che sul divano di uno sconosciuto.
Solo che per una stanza d’albergo avrei bisogno di soldi.
Soldi che al momento non ho con me.
Soldi che sono dentro la mia borsa, dall’altra parte del cortile, in un appartamento con le due persone al mondo che in questo momento voglio vedere meno.
Magari un divano non è una cattiva idea, dopotutto.
Ridge mi prepara il divano, si gira verso di me e il suo sguardo cade sui miei vestiti fradici. Abbassando gli occhi, noto la pozzanghera d’acqua che sto creando sul pavimento.
«Oh, scusami» mormoro. Ho i capelli appiccicati al viso; la mia maglietta è ormai un’inutile barriera trasparente tra il mondo esterno e il mio evidentissimo reggiseno rosa. «Dov’è il bagno?»
Con un cenno della testa, Ridge mi indica una porta.
Io mi volto, apro una delle due valigie e inizio a rovistare all’interno, mentre lui torna nella sua camera. Sono contenta che non mi abbia fatto domande su quanto è successo dopo la nostra conversazione. Non sono dell’umore per parlarne.
Scelgo un paio di pantaloni da yoga e un top, prendo il beauty-case e mi avvio verso il bagno. Mi disturba che questo appartamento ricordi tanto il mio. Ci sono solo delle piccole differenze. Il bagno è uguale, con due porte di accesso alle camere da letto, una a sinistra e l’altra a destra. Una dev’essere la stanza di Ridge, ovviamente. Sarei curiosa di sapere di chi sia l’altra, ma non abbastanza curiosa da aprire la porta. L’unica regola della ragazza di Hooters è stare alla larga dalla sua camera, e non sembra il tipo che scherza.
Chiudo a chiave la porta che dà sul soggiorno, poi faccio lo stesso con le altre due, così che nessuno possa entrare. Non so se ci viva qualcun altro oltre a Ridge e alla tipa di Hooters, ma è meglio non rischiare.
Mi sfilo i vestiti zuppi e li getto nel lavandino per non bagnare il pavimento. Apro l’acqua della doccia e aspetto che diventi calda. Poi entro sotto il getto d’acqua e chiudo gli occhi, grata di non essere più seduta sotto la pioggia. Allo stesso tempo, però, non sono nemmeno felice di essere dove sono.
Non avrei mai pensato che il mio ventiduesimo compleanno sarebbe finito con me che faccio la doccia in un appartamento di estranei e che dormo sul divano di un ragazzo che conosco sì e no da due settimane, tutto a causa delle due persone a cui tenevo e di cui mi fidavo di più.


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