Maybe Someday... Forse un giorno.
Solo a ripetere il titolo emetto mille sospiri di gioia, di amore. Le emozioni che mi ha regalato questa storia... sono le più belle dell'intero anno. Ho amato tanti altri personaggi, ma con Ridge e Sidney è stato un di più. Loro mi sono entrati dentro, hanno tracciato una linea netta con il mio cuore, con le mie emozioni. Il loro è uno di quei amori che non ti stancheresti mai di leggere. Sono stati ossigeno puro. Mi hanno fatto credere che gli ostacoli che troviamo sul nostro cammino, possono essere aggirati. Possiamo raggiungere e ottenere ciò che volgiamo. La Hoover è una garanzia, l'ho già detto. Non so se riuscirò a trovare un libro che sostituisca "Forse un giorno", ma per il momento mi va bene così. ❤
Mi dovete scusare, ma non ho le recensione! Non riesco ancora a credere di non averla fatta per uno dei libri che ho amato di più. Mi farò perdonare ☹
Prologo
Sydney
Ho appena dato un pugno
in faccia a una ragazza. Non a una ragazza qualsiasi. Alla mia
migliore amica. La mia compagna di appartamento.
Be’, da cinque minuti
credo di poterla chiamare la mia ex compagna di appartamento.
Il suo naso ha iniziato a sanguinare quasi all’istante, e per un secondo mi è
dispiaciuto per lei, mi è dispiaciuto di averla colpita. Poi mi sono ricordata
che razza di bugiarda traditrice sia, e mi è venuta voglia di farlo di nuovo. E
avrei potuto, se Hunter non me l’avesse impedito, frapponendosi tra noi.
E così, invece, ho
colpito lui. A lui non ho fatto male, purtroppo. Non quanto se n’è
fatta la mia mano.
Dare un pugno a qualcuno fa molto più male
di quanto immaginassi. Non che abbia mai passato tutto questo tempo a
immaginare quanto possa far male prendere a pugni qualcuno. Anche se sento di
nuovo il bisogno di farlo, mentre fisso sul telefonino il messaggio di Ridge
che è appena arrivato. Lui è un altro di quelli con cui non vorrei più avere a
che fare. So che tecnicamente non è responsabile di questa situazione, ma
avrebbe potuto mettermi in guardia un po’ prima. Per cui prenderei volentieri a
pugni anche lui.
RIDGE: Stai bene? Vuoi salire finché non smette di piovere?
Ovvio che non voglio. La
mano mi fa già abbastanza male così. Se salissi da Ridge, vedrei le stelle per
il dolore dopo aver finito con lui.
Mi volto e alzo lo
sguardo verso il suo balcone. Ridge è appoggiato alla porta-finestra
scorrevole, con il telefono in mano, mi sta guardando. È quasi buio, ma le luci
del cortile gli illuminano il viso. I suoi occhi scuri incrociano i miei, e il
modo in cui curva la bocca in un sorriso dolce e desolato rende difficile
ricordare perché ce l’abbia con lui. Si passa la mano libera tra i capelli
arruffati che gli sfiorano la fronte, rivelando ancora di più la preoccupazione
sul suo volto. O forse è senso di colpa. Come dovrebbe essere.
Decido di non rispondere
e gli mostro il dito medio. Lui scuote la testa e scrolla le spalle, come a
dire ‘Io c’ho provato’; poi torna dentro e chiude la porta-finestra.
Infilo il telefonino in
tasca prima che si bagni e mi guardo intorno nel cortile del complesso di
appartamenti dove ho vissuto per ben due mesi. Quando ci siamo trasferite, la
calda estate texana stava inghiottendo gli ultimi sprazzi di primavera, eppure
questo cortile in qualche modo sembrava ancora pieno di vita. Ortensie blu e
viola costeggiavano i vialetti che conducono alle scale e alla fontana al
centro.
Ora che l’estate ha
raggiunto il suo culmine più sgradevole, l’acqua della fontana è evaporata. Le
ortensie non sono che un triste, appassito ricordo dell’eccitazione che ho
provato quando io e Tori c’eravamo appena trasferite. Guardare il cortile com’è
adesso, sconfitto dalle stagioni, è un inquietante parallelo con come mi sento
in questo momento. Sconfitta e triste.
Sono seduta sul bordo
della fontana di cemento ormai vuota, i gomiti poggiati sulle due valigie che
contengono gran parte dei miei averi, in attesa di un taxi che mi sta venendo a
prendere. Non ho idea di dove mi porterà, ma so che preferirei trovarmi in
qualsiasi altro posto pur di non stare qui. Qui, dove non ho più una casa.
Potrei chiamare i miei
genitori, ma fornirei loro le munizioni per iniziare a sparare tutta una serie
di ‘Te l’avevamo detto’.
‘Te l’avevamo detto di
non trasferirti così lontano, Sydney.’
‘Te l’avevamo detto di
non fare troppo sul serio con quel ragazzo.’
‘Te l’avevamo detto che
se avessi scelto giurisprudenza invece di educazione musicale avremmo pagato
noi.’
‘Te l’avevamo detto che
i pugni si danno con il pollice all’esterno.’
Okay, magari non mi
hanno davvero insegnato la tecnica per dare pugni, ma se fossero stati sempre
nel giusto in ogni situazione, avrebbero dovutofarlo.
Stringo il pugno, poi
distendo le dita, quindi le serro di nuovo. È incredibile quanto mi faccia male
la mano, so che dovrei metterci del ghiaccio. Poveri maschi. Dare pugni è uno
schifo.
Sapete cos’altro fa
schifo? La pioggia. Trova sempre i momenti meno appropriati per cadere, come
adesso che non ho un tetto sulla testa.
Il taxi finalmente
arriva, e io mi alzo e prendo le valigie. Le trascino mentre l’autista scende e
apre il portabagagli. Non gli ho ancora porto la prima valigia, che sento una
stretta allo stomaco, quando mi rendo conto di non avere con me la borsa.
Maledizione.
Mi guardo intorno,
osservo il punto in cui ero seduta con le valigie, poi mi tasto le spalle, come
se la borsa potesse comparire per magia. Ma so esattamente dov’è. Me la sono
sfilata e l’ho fatta cadere a terra un attimo prima di prendere a pugni il
costosissimo naso alla Cameron Diaz di Tori.
Sospiro. E scoppio a
ridere. Ovvio che l’ho lasciata lì. Il mio primo giorno da senzatetto sarebbe
stato fin troppo facile se l’avessi avuta con me.
«Mi dispiace,» dico al tassista,
che sta caricando la seconda valigia «ho cambiato idea. Non ho bisogno di un
taxi.»
So che c’è un hotel a
meno di un chilometro da qui. Se riuscissi a trovare il coraggio per tornare
dentro e recuperare la borsa, potrei camminare fin lì e prendere una camera in
attesa di capire cosa fare. Non credo di potermi bagnare più di così.
Il tassista scarica le
valigie e le posa sul marciapiede davanti a me senza nemmeno incrociare il mio
sguardo. Sale sul taxi e se ne va, senza dire una parola, come se fosse
sollevato per il mio ripensamento.
Devo avere un’aria
davvero patetica.
Prendo le valigie e
torno sui miei passi. Sollevo lo sguardo verso il mio appartamento e mi chiedo
cosa succederebbe se tornassi dentro per prendere il portafogli. Ho lasciato un
bel casino quando me ne sono andata. Immagino sia meglio non avere una casa e
starsene sotto la pioggia, che tornare lassù.
Mi siedo su una valigia
e rifletto sulla situazione. Potrei pagare qualcuno per salire in casa al mio
posto. Ma chi? Non c’è nessuno in giro, e poi chi mi assicura che Hunter o Tori
gli darebbero la mia borsa?
Che schifo di
situazione. So che finirò per chiamare una delle mie amiche, ma adesso sono
troppo imbarazzata per raccontare a qualcuno quanto sia stata stupida negli
ultimi due anni. Questa storia mi ha colto alla sprovvista.
Già odio avere ventidue
anni, e mancano ancora 364 giorni ai ventitré.
È una situazione così
orribile che sto... piangendo?
Perfetto. Adesso mi
metto anche a piangere. Sono una senzatetto al verde, in lacrime e violenta. E
per quanto non mi piaccia ammetterlo, credo di avere anche il cuore spezzato.
«Sta piovendo. Andiamo.»
Alzo lo sguardo e vedo
una ragazza sopra di me. Ha un ombrello in mano e mi sta fissando agitata,
saltellando da un piede all’altro in attesa che io faccia qualcosa. «Mi sto
bagnando tutta. Sbrigati.»
Il suo tono è un tantino
esigente, come se mi stesse facendo un favore e io mi stessi dimostrando
ingrata. Mentre continuo a guardarla, mi riparo gli occhi dalla pioggia con una
mano e alzo un sopracciglio. Non capisco perché si lamenti: non può bagnarsi
visto che non indossa praticamente niente. Guardo la sua maglietta, alla quale
manca tutta la metà inferiore, e mi rendo conto che si tratta della divisa di
Hooters.
Potrebbe andare peggio
di così? Sono seduta su quasi tutto ciò che possiedo, sotto una pioggia
torrenziale, comandata a bacchetta da un’odiosa cameriera di Hooters, il sexy
fast-food.
Sto ancora fissando la
sua maglietta quando mi prende la mano e mi tira su sbuffando. «Ridge aveva
detto che avresti reagito così. Devo andare al lavoro. Seguimi, e ti faccio
vedere dov’è l’appartamento.» Afferra una delle due valigie, tira fuori la
maniglia e me la mette in mano. Poi prende l’altra e attraversa velocemente il
cortile. La seguo, se non altro perché ha con sé una delle mie valigie, e la
rivoglio.
Mentre sale le scale
grida qualcosa nella mia direzione. «Non so quanto hai intenzione di restare,
ma io ho un’unica regola: Sta’ alla larga dalla mia stanza.»
Si ferma davanti alla
porta di un appartamento e la apre, senza mai guardare indietro per controllare
se la sto seguendo. Quando arrivo in cima alle scale, mi fermo di fronte alla
porta e abbasso lo sguardo sulla felce che se ne sta indisturbata dal caldo
fuori dall’appartamento. Le sue foglie sono verdi e rigogliose come se stessero
mandando al diavolo l’estate con il loro rifiuto di soccombere al caldo
torrido. Le sorrido, per certi versi orgogliosa di lei. Poi aggrotto la fronte
quando mi rendo conto di essere invidiosa di una pianta.
Scuoto la testa,
distolgo lo sguardo e muovo un passo esitante verso l’appartamento sconosciuto.
È simile al mio, solo che qui le camere matrimoniali sono state divise per
ricavare quattro stanze da letto più piccole. L’appartamento mio e di Tori
aveva solo due camere, ma la zona giorno è di dimensioni simili.
L’unica differenza
evidente è che qui non vedo nessuna bugiarda doppiogiochista con il naso
insanguinato. Né i piatti e la biancheria sporca che Tori lasciava un po’
ovunque.
La ragazza poggia le mie
valigie di fianco alla porta, poi si fa da parte e aspetta che io... be’, non
so cosa sta aspettando che faccia.
Alza gli occhi al cielo,
mi prende per un braccio e mi tira dentro. «Che problema hai? Sai parlare?»
Inizia a chiudere la porta, poi si blocca di colpo e si volta con gli occhi
sbarrati. «Aspetta,» dice sollevando un dito in aria «non sarai...?» Alza gli
occhi al cielo e si dà uno schiaffo in fronte. «Oh, mio dio, sei sorda.»
Eh? Ma che sta dicendo?
Scuoto la testa e faccio per risponderle, ma lei mi interrompe.
«Dio, Bridgette»
borbotta tra sé. Si passa le mani in faccia con un gemito, ignorando
completamente il fatto che sto scuotendo la testa. «Sei veramente insensibile,
certe volte.»
Wow, questa ragazza ha
dei seri problemi in quanto a relazioni interpersonali. Sembra odiosa, anche se
si sta sforzando di non esserlo... adesso che crede che io sia sorda. Non so
nemmeno cosa rispondere. Poi scuote la testa come se fosse delusa di sé stessa
e mi guarda dritto in faccia.
«Io... devo...
andare... al... lavoro... adesso!» grida a pieni polmoni e scandendo ogni
parola in modo fastidioso. Faccio una smorfia e un passo indietro, il che
dovrebbe essere un indizio evidente del fatto che sento benissimo le sue grida,
ma lei non ci fa caso e indica una porta in fondo al corridoio. «Ridge...
è... nella... sua... stanza!»
Prima che io abbia la
possibilità di dirle di smetterla di starnazzare, esce di casa e si chiude la
porta alle spalle.
Adesso non so cosa
pensare. Né cosa fare. Mi trovo in un appartamento sconosciuto, tutta bagnata,
e la sola persona che vorrei prendere a pugni, a parte Hunter e Tori, è a
qualche metro da me nella sua stanza. E, a proposito di Ridge, perché cavolo ha
mandato da me la sua amichetta? Tiro fuori il cellulare e inizio a scrivergli
un messaggio, quando la porta della sua camera si apre.
Esce in corridoio con le
braccia cariche di coperte e un cuscino. Non appena incrocia il mio sguardo,
resto senza fiato. Spero che non lo noti. È solo che non l’ho mai visto così da
vicino prima d’ora, ed è perfino più attraente di come sembrasse dall’altra
parte del cortile.
Non credo di aver mai
visto degli occhi che sanno parlare. Non sono nemmeno sicura di cosa intendo
con questo. È come se sentissi che basterebbe il più piccolo sguardo di quei suoi
occhi scuri per sapere esattamente cosa vorrebbe che io facessi. Sono
penetranti, intensi e... Oh, mio dio, lo sto fissando.
Solleva l’angolo della
bocca in un sorriso d’intesa, poi mi supera e si dirige verso il divano.
Nonostante il suo bel
viso e quell’aria vagamente innocente, vorrei urlargli quanto è stato
disonesto. Non avrebbe dovuto aspettare più di due settimane per dirmelo. Avrei
avuto il tempo di mettere a punto un piano. Non capisco come possiamo aver
parlato per due settimane senza che sentisse il bisogno di dirmi che il mio
ragazzo se la faceva con la mia migliore amica.
Ridge getta le coperte e
il cuscino sul divano.
«Non resterò qui» dico,
cercando di impedirgli di perdere tempo con la sua ospitalità. So che è
dispiaciuto per me, ma lo conosco appena e mi sentirei più a mio agio in una
stanza d’albergo, piuttosto che sul divano di uno sconosciuto.
Solo che per una stanza
d’albergo avrei bisogno di soldi.
Soldi che al momento non
ho con me.
Soldi che sono dentro la
mia borsa, dall’altra parte del cortile, in un appartamento con le due persone
al mondo che in questo momento voglio vedere meno.
Magari un divano non è
una cattiva idea, dopotutto.
Ridge mi prepara il
divano, si gira verso di me e il suo sguardo cade sui miei vestiti fradici.
Abbassando gli occhi, noto la pozzanghera d’acqua che sto creando sul
pavimento.
«Oh, scusami» mormoro.
Ho i capelli appiccicati al viso; la mia maglietta è ormai un’inutile barriera
trasparente tra il mondo esterno e il mio evidentissimo reggiseno rosa. «Dov’è
il bagno?»
Con un cenno della
testa, Ridge mi indica una porta.
Io mi volto, apro una
delle due valigie e inizio a rovistare all’interno, mentre lui torna nella sua
camera. Sono contenta che non mi abbia fatto domande su quanto è successo dopo
la nostra conversazione. Non sono dell’umore per parlarne.
Scelgo un paio di
pantaloni da yoga e un top, prendo il beauty-case e mi avvio verso il bagno. Mi
disturba che questo appartamento ricordi tanto il mio. Ci sono solo delle
piccole differenze. Il bagno è uguale, con due porte di accesso alle camere da
letto, una a sinistra e l’altra a destra. Una dev’essere la stanza di Ridge,
ovviamente. Sarei curiosa di sapere di chi sia l’altra, ma non abbastanza
curiosa da aprire la porta. L’unica regola della ragazza di Hooters è stare
alla larga dalla sua camera, e non sembra il tipo che scherza.
Chiudo a chiave la porta
che dà sul soggiorno, poi faccio lo stesso con le altre due, così che nessuno
possa entrare. Non so se ci viva qualcun altro oltre a Ridge e alla tipa di
Hooters, ma è meglio non rischiare.
Mi sfilo i vestiti zuppi
e li getto nel lavandino per non bagnare il pavimento. Apro l’acqua della
doccia e aspetto che diventi calda. Poi entro sotto il getto d’acqua e chiudo
gli occhi, grata di non essere più seduta sotto la pioggia. Allo stesso tempo,
però, non sono nemmeno felice di essere dove sono.
Non avrei mai pensato
che il mio ventiduesimo compleanno sarebbe finito con me che faccio la doccia
in un appartamento di estranei e che dormo sul divano di un ragazzo che conosco
sì e no da due settimane, tutto a causa delle due persone a cui tenevo e di cui
mi fidavo di più.
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